Premetto: non ho mai visto il film del regista Dario Argento intitolato “La sindrome di Stendhal” (1996), ma spesso ho sentito usare questa espressione per indicare il senso di stordimento che può colpire persone particolarmente sensibili di fronte alle grandi opere d’arte.
Faccio una parentesi. Penso a quando andai a visitare gli Uffizi… nella sala di Botticelli mi accorsi che il mio fidanzato era seduto davanti alla “Nascita di Venere” completamente bianco in faccia e con lo sguardo vitreo… anziché preoccuparmi mi sono esaltata: si stavano forse manifestando davanti a me gli effetti della famosa sindrome di Stendhal? No, a quanto pare si trattava un normale calo di pressione, risultato di tre giorni passati a farlo girare come una trottola per la città… niente di più! Pazienza, d’altronde si mormora che gli italiani siano immuni alla sindrome (detta anche “di Firenze”), perché abituati a convivere con la grande bellezza.
Questo disturbo psicosomatico è stato riconosciuto scientificamente nel 1979 e descritto dalla psichiatra Graziella Magherini nel suo libro: “La sindrome di Stendhal. Il malessere del viaggiatore di fronte alla grandezza dell’arte” (editore Ponte alle Grazie, 1989).
Io mi sono sempre chiesta quale fosse l’origine della locuzione e, leggendo qua e là, ho scoperto questo: Stendhal (al secolo Marie-Henri Beyle, lo scrittore de “La certosa di Parma” e “Il rosso e il nero”, sepolto a Parigi nel cimitero di Montmartre) nel 1817 pubblicò il resoconto del suo viaggio in Italia, intitolato: “Roma, Napoli e Firenze”. Il 22 gennaio 1817, quando si trovò a visitare la Basilica di Santa Croce a Firenze, scrisse:
“Lì, a destra della porta, è la tomba di Michelangiolo; più avanti, ecco la tomba di Alfieri, di Canova (…). Scorgo quindi la tomba di Machiavelli: e di fronte a Michelangiolo, riposa Galileo. Quali uomini! (…) Quale stupenda accolta! La mia emozione è così profonda, che giunge quasi fino alla pietà. (…) tutto ciò parla vivamente al mio animo. (…) Ero già in una sorta di estasi, per l’idea di essere a Firenze, e la vicinanza dei grandi uomini di cui avevo visto le tombe. Assorto nella contemplazione della bellezza sublime, la vedevo da vicino, per così dire la toccavo. Ero arrivato a quel punto d’emozione dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle belle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, avevo una pulsazione di cuore (…); la vita in me era esaurita, camminavo col timore di cadere.”
La civetta che è in me si è risvegliata nel leggere queste righe: il senso di smarrimento di fronte alla grandiosità storico – artistica del nostro paese colse Stendhal mentre ammirava che cosa? Proprio le tombe dei più grandi artisti del mondo (e il suo deliquio raggiunse poi il culmine osservando gli affreschi del Volterrano nella Cappella Niccolini)! Lo sapevo, ecco l’ennesima conferma dell’importanza dei sepolcri… non che io svenga davanti a ogni tomba illustre che incontro, ma trovarmi in un cimitero circondata dalle tombe di grandi uomini e donne, ma anche di semplici sconosciuti, mi provoca delle emozioni indescrivibili…
… e non lo affermo solo io, lo scrisse Stendhal e prima di lui anche Ugo Foscolo (“Dei Sepolcri”, 1807):
“A egregie cose
il forte animo
accendono
l’urne dei forti”