Ho pensato a lungo se con questa storia avrei rischiato di allontanarmi troppo dal tema principale del blog. Alla fine ho concluso che, siccome la morte tocca nei modi più disparati sia gli esseri umani che gli animali, sarebbe stato giusto raccontare la vita e la fine di Fritz, l’elefante più famoso di Torino.
Tutto ebbe inizio nella prima metà del 1800. Nell’ambito di un programma teso al rafforzamento dei rapporti tra il Regno di Sardegna e gli Stati esteri, il Re Carlo Felice di Savoia stabilì l’invio di 100 pecore merinos al Vicerè d’Egitto, Mohamed Alì (sì, proprio lui, il vicerè amico di Bernardino Drovetti!). Per ricambiare il gesto, il Vicerè regalò al Re sabaudo un elefante indiano di 27 anni chiamato Fritz.
Ignaro del suo destino, Fritz venne imbarcato ad Alessandria d’Egitto il 24 ottobre 1826. Alla fine del viaggio si decise di farlo svernare a Genova e perciò giunse a Torino nell’estate del 1827. Per l’occasione, il direttore del Museo Zoologico dell’Università di Torino (poi Museo di Scienze Naturali), Andrea Bonelli, redasse un libretto d’istruzioni per la cura dell’animale (ogni mese doveva essere lavato e unto con 4 libbre di burro) e per la sua dieta (ogni giorno doveva mangiare 50 pani, 24 cavoli, riso e burro, tabacco e bere 2 pinte di vino).
Fritz venne alloggiato, insieme ad altri animali esotici, nel podere di San Carlo della Palazzina di Caccia di Stupinigi, dov’era stato istituito un serraglio già dalla fine del 1700. Per accogliere l’elefante nel migliore dei modi vennero modificate delle strutture e fu creata una piscina con scivolo dove Fritz poteva rinfrescarsi. Nonostante la sua stazza, il pachiderma era di salute delicata: soffriva spesso di indigestioni e mal di denti. Una brutta indigestione di castagne (curata poi con vino di Malaga) lo portò quasi sulla soglia del Paradiso degli animali. Nel 1829 con un suo dente il regio ebanista Giacomo Marchino realizzò un Crocifisso (oggi conservato sull’altare della Cappella del Castello di Aglié) e nel marzo del 1832 un altro dente (che Fritz si cavò da solo!) venne donato al Re Carlo Alberto.
Era una buona pasta d’elefante: mite, vitale, amante della musica, per 25 anni fu uno spettacolo per la corte e i torinesi che accorrevano a frotte ad ammirare l’animale che riassumeva in sé tutto il fascino e il mistero dell’Oriente. Fritz fu immortalato in varie stampe e in un dagherrotipo, forse l’unico a soggetto animale realizzato in Italia.
Il destino però era in agguato. Un giorno il custode a cui era molto affezionato morì. Fritz entrò in depressione –impazzì secondo alcuni-, rifiutandosi di uscire dal suo recinto e di esibirsi. Obbligato dal nuovo custode, reagì afferrandolo per la proboscide e scagliandolo a terra, uccidendolo.
L’elefante, già mal tollerato dal Re Vittorio Emanuele II per il suo mantenimento troppo costoso (circa 8.000 £), decretò con questo gesto la sua condanna a morte, eseguita l’8 novembre 1852. Fritz venne soppresso mediante asfissia con l’ossido di carbonio e i suoi resti finirono non in un cimitero, ma al Museo di Scienze Naturali, dove possiamo vederli ancora oggi esposti vicino alla maggior parte degli animali del serraglio torinese morti a causa del rigido clima invernale a cui non erano abituati.
Queste la vita e la morte del povero Fritz: portato via dal suo ambiente naturale e diventato un’attrazione per lo svago dei nobili e del popolino; ucciso quando iniziò a dare dei problemi e infine musealizzato e trasformato in oggetto di studio. Una triste storia quella dell’elefante e della sua libertà e dignità calpestate dall’egoismo degli uomini.
(Le stampe raffiguranti Fritz sono tratte dal sito: http://www.comune.torino.it/archiviostorico/)
© Manuela Vetrano. Se vuoi usare questo materiale, scrivimi: info@lacivettaditorino.it
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